Michael Tyler Whittle
I cacciatori di piante – DeriveApprodi
Anno 789 d.C., Carlo Magno sigla un patto d’alleanza col califfo di Bagdad, e ne riceve in dono un maestoso elefante albino, meraviglia esotica dal nome Abul Abbas, ovvero “padre dei leoni”. Anno 1662, a Versailles viene costruito un serraglio, padiglione ottagonale dal cui centro il sovrano francese osserva la sua riserva d’animali rari. La storia è ricca degli incontri fra i reali e specie inusuali: l’orango di Giuseppina Bonaparte, l’alligatore di Lafayette, la tigre di Nerone. Ospitare a corte un animale esotico significava infatti dimostrare il proprio prestigio, che spesso si allungava fino a quelle lontane regioni da cui la creatura era fatta arrivare.
Eppure – e forse questo non lo sappiamo – una simile fascinazione era propria anche verso le specie vegetali. Non solo alla ricerca di leoni, pantere e pachidermi si lanciavano gli esploratori per ingraziarsi il trono e la benevolenza del sovrano, o per portare dono riverente a stranieri ambasciatori. Ed è di questa storia parallela, che si snoda fra foreste, fiumi e steppe, che racconta I cacciatori di piante di Michael T. Whittle, edito in Italia da DeriveApprodi (2015).
A notare questo squilibrio nella narrazione delle gesta dei cacciatori (o raccoglitori, potremmo dire!) di piante fu già Linneo, che con sconcerto affermò che «sebbene gli atti di eroismo compiuti dagli studiosi di botanica non fossero in alcun modo inferiori a quelli che avevano reso grandi “re, eroi e imperatori”, a essi veniva negato un uguale riconoscimento di valore e immortalità». E si chiedeva «quale lavoro è più arduo, e quale scienza più faticosa della botanica?».
Tanto più che questa branca non viene solamente incarnata da professionisti e studiosi, uomini dediti al lavoro in laboratorio, o in biblioteca. Vi fanno spesso incursione avventurieri, esploratori intrepidi, missionari, o ancora grandi sognatori. Alcuni si mettono alla ricerca di piante appetibili per il loro valore economico: non è quel che è accaduto, all’incirca, con la via delle spezie? Altri sono attirati dal valore simbolico che una verde foglia, o uno scarlatto petalo, portano con sé. Racconta ad esempio Whittle che Ernest Wilson, collezionista di gigli, quasi perse la vita in una valanga nel terroso Sezchuan, rifiutandosi di farsi curare una ferita alla gamba e costringendosi a una marcia forzata, solo per mettere i propri occhi sul Giglio Reale, fiore legato sin dall’antichità all’idea di purezza e mistero.
E che dire di John Batram, leggendario cercatore di piante – rigorosamente in solitaria! -, che s’arrischiava nei territori iroqui, chickasawa e shawnees, pure nei momenti di più alta tensione fra le comunità indiane e la sua piccola cittadina della Pennsylvania? A lui va il merito di aver introdotto oltre duecento specie ignote ai giardini del Vecchio Mondo: fra queste la Magnolia grandiflora e il Lilium superbum. Un altro dei grandi nomi ricordati da Whittle nella sua tanto accurata quanto scorrevole storia “alternativa” è quello di Philipp von Sieboid, un collezionista europeo introdottosi in Giappone come oculista, nella prima metà dell’Ottocento. Dalle regioni orientali, a quell’altezza restie ad aprirsi commercialmente all’Europa, von Sieboid riuscì a diffondere le versioni giapponesi di carpino, cipresso, acero, betulla e faggio; e l’avventura di trafugatore di semi sarebbe probabilmente continuata, se l’uomo non si fosse inimicato l’ambasciatore imperiale, cercando di sottrarre, per poi diffondere ai propri compatrioti, una carta dell’ancora misterioso Giappone.
Tante storie e tanti nomi s’intrecciano, in maniera più o meno rocambolesca, ne I cacciatori di piante, tanto che il testo potrebbe essere consultato di tanto in tanto, quasi come un breviario. Ed è certamente grande la cura con cui Whittle, storico anglosassone esperto di botanica – specializzato in storia inglese ed età imperiale – inanella i racconti a metà tra il volume di storia e il romanzo d’avventura. Resta, vivida e certa, la grande passione ed animosità che spingeva i numerosissimi cercatori (da buontemponi spiantati a rampolli reali: come nel caso di Henri d’Orleans, nipote di Luigi Filippo) lungo le più remote sponde del globo. Ed anche un senso misto di stupore e gratitudine che ci prende al termine delle pagine: è forse grazie a loro, nascosti eroi di strampalati libri di storia, se oggi ogni Orto Botanico ospita le più caleidoscopiche specie.