«Un tempo minimo, se ben impiegato, basta per tutto: sarò di ritorno, esattamente, entro ottanta giorni». Così scommetteva l’eccentrico Phileas Fog per la posta di 20mila sterline, dando la sua parola ai soci del Reform Club di Londra. La circumnavigazione del globo in soli ottanta giorni: e un simile patto quello stipulato tra il lettore, Jonathan Drori e Lucille Clerc, autori de Il giro del mondo in ottanta alberi, in Italia edito da Ippocampo. Anche questo viaggio non potrà partire che dall’Europa, esattamente da Londra: è infatti il platano – specie che costituisce ben la metà degli alberi della città inglese! – ad aprire le danze. E da qui si dipana, di pagina in pagina, e di foglia in foglia, un viaggio lungo tutto un mondo.
La voce narrante, estremamente discreta, è quella di Jonathan Drori, che proprio da Londra proviene: anzi, dai Royal Botanic Gardens di Kew, maestoso complesso di serre e giardini, vero e proprio caleidoscopio d’esemplari di ogni provenienza, che ben addensa tutta la storia coloniale, e d’esplorazione, della corona inglese. Ad illustrare le sue parole vi sono le splendide tavole botaniche di Lucille Clerc, che evocano con grande lirismo sia gli alberi nominati sia chi fra i loro anfratti vive – sia chi, di queste specie, anche vive! -.
Il libro che ne risulta tanto somiglia a quei lunghissimi arazzi che raccontano le gesta dell’eroe, o le storie di dinastie longeve. Ci si muove, infatti, saltando da un continente all’altro, e di secolo in secolo, seguendo una sapiente e sempre ricca tessitura. Alle descrizioni tecnico-scientifiche dei vegetali s’intrecciano curiosità (è il caso, ad esempio, della Noce del Brasile, che «ha l’insolita capacità di accumulare minute quantità di elementi radioattivi che si trovano nel terreno, concentrandole nei frutti»), miti e racconti, o scorci su pratiche artigianali – lontane nel tempo come nello spazio.
Apprendiamo così che se l’Albero di Koa (Acacia koa, specie autoctona delle Hawaii) è tanto simile all’Acacia heterophylla, che abita invece l’isola della Réunion nell’Oceano Indiano, è probabilmente perché questa le è “nipote”: e con tutta probabilità un uccello ne ha trasportato oltreoceano i semi, dando luogo alla cosiddetta speciazione più un milione di anni fa. O che, ancora milioni e milioni di anni or sono – tanto lontani da perdersi nel mito – un combattimento leggendario fra un elefante e un drago avrebbe dato origine alla speciale resina della Dracaena cinnabari, o Dracena di Socotra. E ci ritroviamo poi in Malesia, sotto le fronde del Durian: albero con frutti delle dimensioni di un pallone da rugby, e dal sapore indefinibile – e tendenzialmente, sgradevole: Wallace, il grande naturalista dell’800, lo paragonava a una crema pasticciera alla mandorla, con sentore di formaggio, cipolle e sherry!
Traspare, dalla grande cura con cui tale viaggio vegetale è inanellato, quell’altrettanto grande amore che il capitano Nemo (altro personaggio di Verne) provava per la distesa blu del mare: «il suo respiro è puro e sano, è l’immenso deserto dove l’uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita accanto a sé». Forse anche Drori potrebbe dire, del manto verde di chiome che del resto ricopre egualmente grande parte del globo: «non è che movimento e amore, è l’infinito vivente». Perché, per comprendere anche questo viaggio, è bene guardare alla casa, da cui si è partiti e a cui, alla fine, si ritorna: per l’autore, il grande Cedro del Libano che adornava la dimora d’infanzia, e che un giorno viene colpito da un fulmine. Drori ricorda le parole della madre davanti al legno divelto, che diventano quasi auspicio e talismano per questo itinerario lungo gli emisferi: in ogni albero c’è un mondo, che spesso ha anche bisogno della nostra protezione.
In ogni albero c’è un mondo che va quindi raccontato, perché ce ne si accorga, e ce ne si prenda adeguata cura. E questo fanno, con grande delicatezza, Drori e Clerc. Tanto che al termine del libro, un po’ come Phileas Fog, spereremmo anche noi di aver guadagnato un’ora di viaggio in più, muovendoci tra i fusi orari. Sia mai che in questo tempo minimo, ma ben impiegato, si possano scoprire nuovi alberi ancora.